domenica 8 ottobre 2023

Tre artisti che incrociano i miei interessi

In previsione di un programma architettonico volto al un polo multi-artistico le cui fondamenta sono le arti visive innovative e il riciclo di materiali, non posso non citare Alberto Burri la cui arte costituì uno degli esempi più significativi di Informale del secondo dopoguerra, è stato tra gli artisti materici più importanti al mondo. 

Un’arte, quella di Burri, che rinunciò alla tradizionale nozione di “bella pittura”, abbandonò l’antico strumento del colore ad olio, adottò materiali poveri rivestendoli di valenze esistenziali.

Burri combatté durante la Seconda guerra mondiale come ufficiale medico e fu prigioniero di guerra nel 1944 in Texas, dove iniziò a dipingere e tornato in Italia, alla fine del conflitto, decise di lasciare la professione medica per dedicarsi unicamente all'arte.

A partire dal 1948-49, polarizzò il suo interesse sulla vitalità organica ed espressiva della materia, iniziando a utilizzare catrame, smalti, sabbie e applicandoli alle sue tele. 

Oggi Burri è giudicato un maestro; quando iniziò la sua ricerca, negli anni Quaranta, dovette fronteggiare scetticismo, sarcasmo e insulti. Critiche cui Burri era solito rispondere con il silenzio. 


I sacchi

Fu tra il 1950 e il 1952, che Burri iniziò a realizzare i suoi celebri “sacchi”, ottenuti cucendo vecchie pezze di tela di sacco, di grana e colore differenti. Sacco 5P, del 1953, è una delle sue tante opere ottenute con tele di juta, quella dei sacchi destinati a contenere generi di prima necessità.

Pezzi di tela rattoppati sono cuciti secondo una sostanziale simmetria; gli effetti cromatici, plastici e materici sono affidati alle diverse tonalità e agli spessori dei sacchi. Compare, sulla destra, anche una vistosa lacerazione verticale, con tracce di vernice rossa.



Le lacerazioni di Burri sono “squarci”, prodotti da un atto di forza e di violenza. E non è sicuramente un caso che il colore (rosso) sia stato destinato proprio a questa parte del sacco: esso, metaforicamente, allude al sangue della carne ferita e trasforma lo strappo in una dolorosa lesione.




Gli stessi squarci e rattoppi, la vernice rossa, mi hanno fatto riflettere al dolore che ogni persona porta in se, sia fisico che psicologico. La juta può essere visto come un contenitore, una memoria di se stessi. Lacerazioni, fori, cuciture...questo contenitore sta per svuotarsi e dobbiamo porre un freno al lento decadimento della tela della vita.

Da un punto di vista personale, trovo quest'opera come metafora della pelle, ormai invecchiata e logora, stanca e piena di cicatrici. 


Sicuramente un'altro artista che viene incontro ai miei interessi sia progettuali che intellettuali, è Christo, uno dei più grandi artisti degli ultimi sessant’anni e ha segnato l’arte del Novecento, insieme alla sua immancabile donna di vita, la moglie Jeanne-Claude.

Christo Javacheff nasce a Gabrovo in Bulgaria il 13 giugno del 1935. Nel 1956 completa gli studi all’Accademia di Belle Arti di Sofia. Nel 1965 Christo soggiorna a Praga per sei mesi e l’anno successivo completa un semestre di studio all’ Accademia di Belle Arti di Vienna. 



Nel 1958 si trasferisce a Parigi dove entra in contatto con una realtà artistica particolarmente significativa e dove incontra Jeanne-Claude Denat de Guillebon che diverrà sua moglie nello stesso anno. Nel 1958 Javacheff Christo aderisce al gruppo del Nouveau Réalisme fondato da Pierre Restany. Di questo periodo sono le sue prime opere come i “Packages “ ed i “Wrapped Objects”. 



Celebre artista rivoluzionario noto per i suoi impacchettamenti, dove vedeva inizialmente, nell’impacchettamento, un mezzo per conoscere meglio l’oggetto e per ridurlo all’analisi delle sue qualità essenziali: forma, materiali, aspetto della superficie.


Christo e sua moglie Jeanne-Claude lavorarono a molteplici progetti artistici, come il Muro di barili di petrolio, 42.390 Cubic Feet Package dove l'arte era nella realizzazione di palloni gonfiabili all'interno di un involucro in polietilene e successivamente Scatole Impacchettate, dove scatole simili a pacchi postali, celavano una sopresa: se il collezionista avesse aperto l'opera, avrebbe trovato un biglietto con scritto "hai appena distrutto un'opera d'Arte".


Celebre è anche l'installazione Valley Curtain, dove a Rifle, nel Colorado, la coppia di artisti installarono un'enorme tenda arancione tra due catene montuose che scorrono parallele.


È probabilmente il più famoso degli impacchettamenti di Christo e Jeanne-Claude, nonché quello che ha richiesto più tempo per essere realizzato, dal momento che trascorsero ventiquattro anni dall’ideazione all’esecuzione dell’opera. L’idea, come da tipico modus operandi di Christo e Jeanne-Claude, era quello di avvolgere il Reichstag di Berlino, la sede del Parlamento tedesco, con il tessuto di polipropilene: l’operazione si sarebbe anche ammantata di notevoli accenti politici, di fatto "impacchettare un simbolo del potere quale il Reichstag significa porre in evidenza e contemporaneamente abbattere quel simbolo" cit.V.Sgarbi. 

Christo non fornì particolari spunti per l’interpretazione dell’opera, si limitò a rimandare  alle fugaci opere umane, il tessuto, come i vestiti o la pelle, è fragile: traduce la qualità unica della transitorietà.

Come per tutti gli artisti che hanno una loro spiccata cifra stilistica, ci si domanda quale è stata la fonte di ispirazione di questo gesto di Christo. Le possibili ipotesi sono due; la prima potrebbe essere il fascino esercitato su Christo bambino dalle vetrine oscurate per il cambio dell'arredo; possiamo immaginare quali fantasticherie passavano per la sua testa a cercare di intuire quello che i teli oscuranti celavano e le sagome appena accennate dei vetrinisti, erano ragazze o ragazzi, erano belle o brutte e via dicendo. Questo tema  affascinò tanto Christo che quello delle vetrine fu uno dei primi impacchettamenti e forse quello più noto, eseguito in varie dimensioni e colori. Un'altra possibile ipotesi di ispirazione potrebbe  stata "L'enigma d'Isidore Ducasse", opera del 1920 di Man Ray. L'opera consiste in un oggetto misterioso, donde la dicitura enigma, impacchettato e legato con lo spago. Però questa è l'unica opera impacchettata di Man Ray per cui non ne costituisce un carattere distintivo al contrario di Christo che fece dell'impacchettamento il suo modo di fare arte. 


The Floating Piers

Il progetto che in assoluto ha destato la mia curiosità è però realizzato in Italia, sul Lago d'Iseo nel 2016.

Centomila metri quadri di tessuto giallo per creare un grande pontile che univa la cittadina di Sulzano a Monte Isola e all’isola di San Paolo. Cittadini e turisti ebbero l’opportunità di camminare sulle acque, facendo un’esperienza difficile da dimenticare. 

L’opera rimase sul lago per circa un mese, dopodiché tutti i materiali furono smontati e riciclati: come tutti i progetti di Christo e Jeanne-Claude.

I pontili galleggianti del Lago d’Iseo non prevedevano il pagamento di un biglietto d’ingresso, né inaugurazioni, prenotazioni o cerimonie. Per Christo, i Floating Piers erano “l’estensione di una strada” e appartenevano a tutti. 

Per me è Christo è la vera essenza dell'arte, in grado di suscitare enormi emozioni talvolta contrastanti, di violente proteste o di meraviglioso stupore; un'arte rafforzata dalla cancellazione della stessa, perchè l'arte sia fatta di ricordi ed emozioni, di odori e colori, di un sogno ormai svanito.

In questo progetto lui affronta anche il tema del percorso e delle connessioni, tra isole, tra persone e tra ricordi, oltre a sottolineare nuovamente la fugacità delle opere umane.

Guardando le foto dell'installazione ormai svanita non posso non pensare a dei collegamenti, a dei ponti che il tempo fa cedere, spezza e affonda. Quello che rimane è un ombra nei nostri ricordi. 


Un'ulteriore Artista che mi ha colpito per la sua vita rivoluzionaria, tipica di ogni artista, ma con una scintilla aggiuntiva, è Giovanna De Sanctis Ricciardone, scomparsa pochissimo tempo fa.

Il mio terzo programma di progettazione nasce proprio come estensione del suo politecnico, dove, una volta laureata alla facoltà di Architettura, si rifugia. Come fa notare, la figura dell'artista è irta di ostacoli e talvolta non è visto come vero e proprio lavoro, ma quasi come uno svago. La stessa Elisa Montessori in un suo intervento fatto in aula presso questo corso, afferma che "l'ispirazione non esiste, l'artista deve lavorare continuamente, giorno e notte". 

Giovanna De Sanctis Ricciardone, lasciò il politecnico perchè ormai stretto per le sue vedute artistiche e si trasferì a Calvi, in una piccola cittadina Umbra, dove potè aprire la sua galleria e quindi fondare un luogo adatto alla scultura progettuale.  L'arte per lei, è passione, passione proveniente dal nostro "spirito del profondo" che non nutre sempre un accezione positiva; difatti passione deriva dal greco, pathos, sofferenza. 


Trafissioni


Negli anni '70 nasce Trafissioni, un disegno molto forte in cui ribalta l'immagine classica di San Sebastiano trafitto dalle frecce. Infatti non è lo stesso Santo che regge le frecce, ma sono le frecce che reggono San Sebastiano.



Le frecce per Giovanna, sono la materializzazione delle forze e in quanto massa, noi, siamo sottoposti alle forze che ci trafiggono e sono queste forze che ci danno il coraggio di andare avanti. 



Trafitti è un rapporto tra massa e forza, dove Giovanna interpreta l'incastro-contraddizione, ossia la massa che grava sulla terra per forza fisica e la forza che ci trafigge ma ci solleva.

Ho scelto questa opera perchè è un pò il riassunto dei miei tre programmi di progettazione. 

La debole massa corporea che rotta, spezzata, in decadimento cognitivo, sola abbandonata e piena di frecce e di dolore, chiede un aiuto da parte dell'arte per risollevarsi, elevarsi e in qualche maniera diventare opera d'arte di se stessi.

Un opera che suscita in me angoscia e sollievo allo stesso tempo, qualcosa di pesante si libra nel vuoto, magnifico. Ma a che prezzo? La trafissione e il dolore della materia che viene distrutta per poi elevarsi e tornare vittoriosa. 






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